Una cartolina dall’Avvocato!

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Facimu semp’ì stessi errori!

(ovvero come perdere la Serie B per due volte di fila e non provare vergogna)

 

Premetto che mi scuso perché so che per la lettura ci vorrà un po’ di tempo, … ma non troppo. Comunque armatevi di sana pazienza e cominciamo.

Nel film Il Giorno della civetta, tratto dal capolavoro di Leonardo Sciascia, c’è un momento dove uno dei due protagonisti parla della sua visione dell’essere umano, invero uno splendido dipinto sulla società, una descrizione eternamente valida, sia che si guardi al passato, al presente, al futuro:

“Io ho una certa pratica del mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) ruffiani e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancor più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi…E ancora più giù: i ruffiani, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre ”.

In questa amara classificazione voglio porre l’accento sulla categoria degli ominicchi, tralasciando il ruffiano, che Sciascia identifica con il perdente per eccellenza, ed il quaquaraqua, con il quale l’autore raffigura lo sciocco la cui parola ed il comportamento hanno lo stesso peso dello starnazzare di un’anatra.

Iniziamo dalla etimologia del termine ominicchio, di evidente origine dialettale, il cui significato nell’accezione popolare si trasforma da “uomo piccolo” a quella di “uomo che si atteggia a vero uomo, ma che non lo è”.

Sciascia, con l’ominicchio, intende rappresentare colui che fondamentalmente non ha una grande personalità, pur essendo dotato di un quoziente intellettivo che rientra sicuramente nella media, il che lo distingue sia dal ruffiano che dal quaquaraqua.

Per ovviare a tale carenza l’ominicchio preferisce vivere in uno stato di isolamento rispetto alla realtà circostante, distaccandosi dalla società nella quale vive, e la frequenta poco anche se ci vorrebbe stare. Però non solo non sopporta il confronto ma neanche tiene in alcun conto le idee degli altri, se contrastanti con le sue. Ritenendo di essere il depositario della verità assoluta non è lui che sbaglia, ma chi lo circonda e dal quale è stato tradito nonostante la fiducia riposta. Ciò lo porta a reiterare perennemente il suo modo di fare, ripetendo sempre gli stessi errori come un disco incantato. Ovviamente, avendo bisogno di una autogiustificazione, tende a scimmiottare, negli atteggiamenti e nelle parole ma non nella sostanza, gli uomini, che erroneamente considera “forti perché decisionisti”, facendoli diventare quasi un suo oggetto di culto mistico.

Ora qualcuno si domanderà: cosa c’entra tutto questo con il Cosenza?

Ma se ci riflettiamo bene la domanda giusta da porsi adesso è semmai un’altra, e cioè quella del perché molti di noi provano ormai un profondo senso di vergogna nel dire che siamo tifosi del Cosenza, perché, vuoi o non vuoi, siamo identificati con una società di calcio che porta, in giro per l’Italia, il nome della nostra terra.

La risposta che mi sono dato è che si tratta di una vergogna che nasce da tutti questi anni dove il Cosenza sembra (o è?) nu peddrazzune abusivo, pronto a raccattare per terra le eventuali briciole che cadono dal tavolo dove tutti gli altri commensali sono seduti e mangiano, anni che siamo stati irrisi sulle televisioni nazionali, anni che siamo ancora dileggiati a destra ed a manca, diventati ormai perenne oggetto di vero e proprio scherno, una squadra che, al solo sentire nominare, la maggior parte dei calciatori scappa, preferendo di gran lunga restare in C o in D, se non disoccupati, e mi immagino pure che motivino il loro diniego facendoci «‘o pernacchio» che, parafrasando il grande, immortale, Eduardo De Filippo «deve significare: tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza. Mi spiego?».

Tra poco saremo (anche se ho paura che già lo siamo) il paradigma di come non si fa calcio, e temo il momento in cui si dirà purtroppo questa società si comporta come il Cosenza.

Diventeremo in tal modo la pietra angolare dell’arrunzaggine, e pure su scala nazionale (superando pure i chirillà, che la qualifica dispregiativa di ripescati almeno l’avevano solo su scala locale).

Tutto ciò ci fa apparire come se, sportivamente, fossimo un popolo privo di amor proprio, di dignità, e non è vero ma, per quanto forte potremo gridarlo, saremo visti come il termine di paragone negativo di quando tutte le altre squadre faranno dei grossolani errori.

Certo, se mai in futuro sarà fatto un grande lavoro, da veri professionisti, ciò ci permetterà di apparire come davvero siamo e non come adesso sembriamo.

Ma questo non è l’oggi.

E proprio per tutto questo io, anzi noi, pur non essendo colpevoli di tale e tanto scempio ed obbrobrio, proviamo vergogna.

Chissà se anche qualche altro prova la stessa vergogna.

O è un ominicchio?

FORZA COSENZA

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